domenica, febbraio 22, 2009

IL PD - DARIO FRANCESCHINI E SUO DISCORSO DI ROTTURA

Non si è andati alle primarie subito, la base, ad ampia maggioranza non ha voluto. Ha voluto invece eleggere Franceschini a segretario fino al congresso e le primarie di ottobre pv.

Sembrerebbe il “suicidio” che avevo paventato nel mio articolo precedente, ma a giudicare dal suo discorso di “rottura” anziché di “continuità” e dagli impegni nuovi cui s’incarica di portare a termine, si riaccende la speranza. Su questo ha già guadagnato gli strali dei Berluscones!

Come segnali forti, comincia dalla nostra Costituzione sulla quale “giurerà” come segretario del PD “marcando” simbolicamente la prima differenza con Berlusconi che invece vuole “distruggerla”.

Continua con la questione della “laicità” dello Stato che va “riaffermato” salvaguardando la libertà di scelta di tutte le persone. Chi più di un ex-dc cattolico può difendere la laicità dello Stato? Nessuno meglio di un cattolico democratico può accollarsi la responsabilità di difendere la laicità dello Stato anche se ciò può significare mettersi contro i Vescovi e il Vaticano, come la storia insegna.

Infine dichiara di “azzerare” tutti gli incarichi al centro e alla periferia (con le dimissioni di Veltroni sono tutti delegittimati) e non si farà influenzare da nessuno e che prenderà tutte le “decisioni” che lui riterrà servano al partito. Non consentirà più i “contrasti” sui media e sulla stampa ma all’interno del partito per “costruire” una posizione comune oppure a maggioranza e il partito tornerà a parlare con una “sola voce” a tutto il Paese.

Se farà tutto questo e/o sarà messo nella condizione di farlo (non lo è stato per Veltroni, ma le sue dimissione ora le permette), allora si aprirà una fase nuova e forse determinante per il PD e per il Paese nella quale "recuperare" da subito la sua funzione di “opposizione” efficace a Berlusconi ed in prospettiva a "riguadagnarsi" la fiducia di tutti quegli elettori che non vogliono consegnare l’Italia al Cavaliere e vogliono invece avviare una lunga stagione di vere riforme.
Raffaele B.

snaplinx
21 febbraio 2009
Dario Franceschini Nuovo segretario parla all'Assemblea Nazionale del PD 21/02/2009
(1 parte di 4)


Vi sono le altre 3 parti nei video correlati.

REPUBBLICA
Pd, l'Assemblea ha scelto l'orgoglio e la speranza
di EUGENIO SCALFARI
22 febbraio 2009

IL GIORNO dopo le sue dimissioni da segretario del Partito democratico tutti i giornali aprirono la prima pagina con il titolo: "Veltroni si dimette e chiede scusa". Titolo ineccepibile perché nel suo discorso di addio domandò scusa almeno tre volte, all'inizio, alla metà e ancora alla fine.

Chiese scusa e ringraziò. Prese su di sé tutta la responsabilità dell'insuccesso, anzi degli insuccessi. Aggiunse: "Non ce l'ho fatta". E questa è stata l'impressione ricevuta dai lettori, gran parte dei quali si limita a sfogliare leggendo i titoli e scorrendo velocemente i testi.

Ma chi ha letto o ascoltato quel discorso sa che c'era molto di più delle scuse e dei ringraziamenti. Non era affatto l'addio di chi ripiega la bandiera e se ne va. Era un discorso di rilancio del partito, che forniva ai successori la piattaforma politica e programmatica dalla quale ripartire. Quella già indicata al Lingotto dell'ottobre 2007, allora accolta da tutti, dentro e fuori del Pd come una forte discontinuità rispetto al passato ed una suggestiva apertura verso il futuro.

Veltroni ha spiegato dal suo punto di vista perché quell'inizio così promettente è poi andato declinando giorno dopo giorno. Lasciamo pure da parte la guerriglia che si è quasi subito scatenata contro di lui e sulla quale lui stesso ha avuto il buongusto di non insistere. C'è stato un suo errore caratteriale da lui stesso ammesso: la mediazione per tenere insieme a qualunque costo le varie anime del partito. Forse è meglio dire i vari pezzi del partito: laici e cattolici, socialisti e moderati, tolleranti e intransigenti, puri e duri e pragmatici.

Veltroni ha impiegato gran parte del suo tempo a cercare punti di sintesi che erano piuttosto cuciture fatte col filo grosso, con la conseguenza che quei vari pezzi e quelle varie ispirazioni e provenienze sono rimaste in piedi senza dar vita ad una cultura nuova e unitaria. Con un'aggravante: nel Sud le classi dirigenti locali, fatte alcune rare eccezioni, hanno un basso livello etico e politico, non sono gattopardi ma volpi e faine. In tutti i partiti e in tutti i clan. A destra, al centro e a sinistra. Con frequenti mutamenti di casacche secondo le convenienze del momento e del luogo.

Questo è stato l'errore di Veltroni, ammesso da lui stesso. Francamente non saprei trovarne un altro, ma questo è certamente di notevole rilievo. Il programma c'era ed è adeguato alle contingenze attuali. La linea politica c'era e anch'essa è tuttora adeguata. Le critiche politiche e programmatiche formulate da D'Alema nella sua importante intervista rilasciata l'altro giorno al nostro giornale ci sembrano prive di consistenza. Quella che è mancata è stata la leadership. Gli era stata data da tre milioni e mezzo di elettori alle primarie di quell'ottobre, ma lui non l'ha usata.

Le dimissioni sono giunte inaspettate ma hanno avuto un effetto dirompente: hanno coinvolto l'intero gruppo dirigente, quello che dentro e fuori dal Pd è stato battezzato l'oligarchia, cioè il governo di pochi. Dopo aver impiegato sedici mesi per tenerla unita, in un colpo solo le dimissioni del segretario l'hanno delegittimata e spazzata via tutta insieme. Fuori lui e fuori tutti. Il partito c'è ancora, la necessità di una forza politica riformista di sinistra esiste più che mai, ma il gruppo dirigente non c'è più, non ha più legittimazione.

Ci sono singoli individui apprezzabili per la loro onestà intellettuale, il loro coraggio, la loro biografia, utilizzabili in quanto individui. Come personale di governo, se e quando l'eventualità di un governo di centrosinistra si materializzasse. Ma non più come gruppo politico dirigente. Veltroni si è dimesso e ha dimissionato l'oligarchia. Non so se ne sia stato consapevole ma questo è ciò che è accaduto.
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Ci hanno spiegato che il congresso su due piedi tecnicamente è impossibile, si farà ad ottobre come previsto. Ci hanno spiegato che anche le primarie immediate sono, se non impossibili, tecnicamente difficili, i candidati non avrebbero neppure il tempo di presentarsi ai loro elettori come avviene in tutte le primarie serie, specie per i candidati nuovi, cioè non provenienti dal vecchio gruppo dirigente.

Ma c'è soprattutto una ragione politica che ha sconsigliato le primarie immediate. Per almeno un mese il partito avrebbe dovuto ripiegarsi su se stesso e un altro mese sarebbe poi passato per insediare il nuovo segretario. Significa che fino a maggio il partito sarebbe di fatto stato senza una guida e quindi in piena anarchia.

Nel frattempo la vita politica e parlamentare proseguirà, sarà necessario decidere come fronteggiare la crisi economica che proprio tra marzo e maggio raggiungerà il suo culmine, quale sarà l'atteggiamento del Pd sui temi della sicurezza, della riforma della giustizia, del testamento biologico, del referendum; bisognerà designare migliaia di candidati alle elezioni amministrative e formare le liste per le elezioni europee, organizzare la campagna elettorale che culminerà nell'"election day" del 6 giugno.

Un lavoro immane, impossibile da svolgere con un partito privo di fatto di guida politica. Era pensabile una soluzione di questo genere? O si trattava di un "cupio dissolvi" verso il quale il cosiddetto popolo di sinistra poteva precipitare? Bertinotti ha ravvisato un parallelismo tra la crisi che ha già dissolto la sua sinistra e quella che si profilava nella sinistra riformista. La previsione è stata per fortuna scongiurata dai riformisti e la ragione ha prevalso su precarie emotività.

Così è avvenuto con il voto dell'assemblea che a larghissima maggioranza ha scelto la soluzione Franceschini per colmare il vuoto lasciato dalle dimissioni di Veltroni. È una scelta di continuità oppure di rottura rispetto alla fase conclusa l'altro ieri?
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Il nuovo segretario proviene dall'ala cattolica del Pd, è stato fin qui il numero due del partito condividendo con Veltroni la linea politica e la gestione. Tuttavia il suo discorso all'assemblea di ieri non è stato di continuità ma di rottura. Si è impegnato ad azzerare tutti gli incarichi al centro e alla periferia. Ha preso una posizione decisamente laica sul tema scottante del testamento biologico.

Per lui questa scelta non è inconsueta: fu il promotore e il primo firmatario del documento pubblicato un anno fa, sottoscritto dalla quasi unanimità dell'ala cattolica impegnata nel Pd, che rivendicava la piena autonomia delle scelte rispetto alla precettistica della gerarchia ecclesiastica. Una linea che cominciò da De Gasperi e proseguì fino ad Aldo Moro e poi a De Mita. Del resto nessuno meglio di un cattolico democratico può accollarsi la responsabilità di difendere la laicità dello Stato, la libertà dei cittadini e la loro eguaglianza di fronte alla legge anche se sostenendo questi principi ci si discosta dalle posizioni dei Vescovi e del Vaticano.

Vedremo in che modo il nuovo segretario adempirà agli impegni presi di fronte all'assemblea che lo ha eletto. Dovrà servirsi della sua oggettiva debolezza politica per farne una forza. Se ci riuscirà avrà come premio il merito di consegnare al futuro congresso un partito che ha superato una "tempesta perfetta" senza implodere nell'anarchia e nello sconforto. Questo è il suo compito ma per svolgerlo avrà bisogno del sostegno della base, soprattutto dei nuovi dirigenti che dovrebbero emergere durante questi mesi di procellosa navigazione.
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Nel frattempo Casini è uscito dal fortilizio che ha difeso finora con tenace volontà e si è lanciato in una guerra di movimento. La situazione dal suo punto di vista gli è favorevole dopo il successo in Sardegna della sua lista apparentata con Berlusconi. Il Pd è in crisi e una parte dell'ala cattolica propugna da tempo un'alleanza con l'Udc non escludendo una possibile scissione.

Ma tra il dire e il fare ci sono tuttavia molti ostacoli. Il primo sta nel fatto che Casini non ha alcun interesse a stipulare un'alleanza nazionale col Pd, che è pur sempre un partito con un seguito molto più numeroso del suo. Alleanze locali laddove siano vincenti sì, ma un patto di unità d'azione nazionale certamente no.

L'obiettivo di Casini è di fare un grande partito centrista che assembli i moderati del Pd e i liberali del Pdl. Grande rispetto all'attuale Udc che ottiene il 10 per cento nei luoghi in cui si allea con Berlusconi ma ritorna al suo 5-6 quando va da sola. L'obiettivo di Casini dovrebbe portare il suo partito di centro verso un consenso a due cifre, oltre il 10 per cento, in una forchetta da lui auspicata tra il 12 e il 15. Il modello che ha in mente è quello di Kadima, il partito israeliano fondato da Sharon e ora guidato da Tzipi Livni, che ha frantumato il Labour ed ha ottenuto alle recentissime elezioni una discreta affermazione in un quadro che registra un massiccio spostamento verso la destra e l'estrema destra dell'opinione pubblica di quel paese, con alcune punte dichiaratamente razziste.

Il quadro politico italiano non è paragonabile a quello di Israele, tuttavia il riferimento a Kadima lo fanno esplicitamente Casini e Buttiglione. Qualche ragione ci sarà. Lo schema mentale di Casini è quello d'un partito di centro cattolico, moderato e liberale che alimenti il cosiddetto regime dei due forni e cioè tre partiti sulla scacchiera, uno a destra, l'altro a sinistra un terzo al centro e quest'ultimo come ago della bilancia che decida quando e con chi di volta in volta allearsi. Non a caso questo schema, quest'ipotesi di lavoro è sostenuta da gran parte dei "media" che danno voce a interessi forti la cui moneta è rappresentata dallo scambio dei favori e dalla reciproca protezione.

Nei mesi che ci stanno alle spalle abbiamo assistito ad una campagna di delegittimazione sistematica nei confronti di Veltroni e del Pd, rei di non piegarsi a sufficienza alla connivenza con il centro e con la destra. Veltroni ha commesso un errore e l'abbiamo già indicato, ma ha resistito a quella pressione che però ha infine raggiunto l'obiettivo che perseguiva ottenendo il suo ritiro. Non è tuttavia riuscita a far implodere il Partito democratico e personalmente mi auguro che non ci riuscirà.

La politica dei due forni d'altra parte è irrealizzabile per una decisiva ragione. Essa presuppone che i due forni, cioè i due piatti della bilancia, siano solidi e di forza equivalente. Quello di destra è in realtà fortissimo, almeno fino a quando il populismo di Berlusconi farà presa sulla maggioranza degli elettori. Quello di sinistra è fragile, alla ricerca di una identità nuova che superi le storie antiche e ormai inservibili. Senza una sinistra salda non esiste l'ago della bilancia perché non esiste la bilancia. Ci sarebbe soltanto un centro aggregabile alla destra o relegato al margine della scacchiera. La sinistra scomparirebbe in una palude di sabbie mobili lasciando senza rappresentanza politica una massa di ceti sociali privi di poteri di negoziazione e inchiodati ad un rapporto perverso tra padroni e servi. Con una regressione sempre più rapida della Chiesa verso un ruolo lobbistico colluso con un governo di atei devoti.

Con l'elezione del nuovo segretario del Pd comincia l'ultimo atto di un percorso accidentato ma forse più consapevole e più partecipato. È auspicabile per la democrazia italiana che da qui si riparta con nuova lena e intatte speranze.

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