Un’intervista fatta da RADIOVATICANA ed un commento autorevole su UNITÀ spiegano meglio di tutti gli altri numerosi articoli e interviste fatte su tutti i media, le effettive ragioni che stanno alla base dell’enorme crack finanziario dei mutui sub-prime americani che stanno travolgendo il mondo intero.
È evidente che senza l’intervento dello Stato le banche crollano e con essi tutti i milioni di risparmiatori che hanno acquistato i titoli “spazzatura” in tutto il mondo. Tutte le banche coinvolte si fanno ovviamente scudo dei risparmiatori per farsi salvare dallo Stato. Queste per anni hanno venduto “carta” cioè “debiti” ad altre banche e queste altre ad altre e così via fino ai risparmiatori che per la stragrande maggioranza appartengono alla classe media.
Che cosa è accaduto allora? Qual è stato quel terribile e semplice meccanismo che ha fatto crollare la montagna di “carta”?
La sterminata gente che ha avuto il “mutuo facile” per acquistare le case, ad un certo punto non ce l’ha fatta più a pagare le “rate” sempre più alte perché nel frattempo si era “impoverita” e anche perché non conveniva più pagare un mutuo più alto del valore della casa.
Nemmeno laddove la banca fosse riuscita a recuperare l’immobile ha potuto recuperare tutto il valore perché nel frattempo le case si sono “svalutate” e questo si è tradotto in “perdite di liquidità” che non permette di onorare tutta la “carta” messa in circolazione diventando così “titoli spazzatura”.
Gli Stati e i Governi ora sono costretti ad intervenire sugli effetti e non sulle cause con montagne di soldi da “addebitare” alla collettività (di cui gran parte sono i risparmiatori medesimi).
Le cause del fenomeno sono simili alla crisi del ’29 e sono dovute principalmente alla concentrazione della ricchezza a pochi in conseguenza all’impoverimento della classe media e povera in questi ultimi quindici anni. Questi non riuscendo più a reggere la domanda interna non comprano più case facendo abbassare i valori degli immobili. In queste condizioni solo gli speculatori si sono avvantaggiati insieme a quei banchieri e finanzieri che ora si vedono coperti i loro debiti dallo Stato.
La deregolamentazione ed allentamento dei controlli sul sistema finanziario all’insegna del “liberismo senza regole” che si pensava fosse “autoregolante” ha invece prodotto il crack spettacolare a cui stiamo assistendo.
Raffaele B.
RADIOVATICANA
Sì del Senato USA al piano anticrisi di Bush
02/10/2008 15.56.08
Il presidente americano George W. Bush ha detto che, dopo il voto positivo del Senato ieri, anche la Camera deve dare luce verde al piano di salvataggio di Wall Street. ''Ne ha bisogno l'economia, il piano è essenziale alla sicurezza dei mercati'', ha detto Bush, secondo il quale, con gli emendamenti al piano approvati, repubblicani e democratici non dovrebbero più avere riserve a votare per il sì. Alla Camera, dove si rivota venerdì, avevano bocciato il piano 228 deputati contro 205 favorevoli. Ma come valutare a questo punto la crisi economica partita dagli Stati Uniti? Nell’intervista di Fausta Speranza, l’economista Mario Deaglio, docente all’Università di Torino, la paragona ad una sorta di virus:
R. – Se noi paragoniamo questa infezione ad una infezione causata da un virus, possiamo dire che finora abbiamo dato degli antibiotici: abbiamo, cioè, iniettato dei soldi quando mancavano. Ma come succede, gli antibiotici circoscrivono, limitano i danni, ma non curano la malattia principale. Quello che il governo americano sembra voler fare è, invece, di incidere sulla sfiducia, eliminare quindi la sfiducia, perché i “titoli spazzatura” verrebbero comprati – loro dicono per un periodo temporaneo – da un ente nuovo governativo e quindi la spazzatura viene messa in frigorifero e poi quando sarà il momento, passata l’emergenza, viene gradualmente venduta e sperando di non rimetterci troppo. La cifra è grande in sé, è enorme, ma rappresenta probabilmente non più del 20 per cento dei “titoli spazzatura” che ci sono in giro. L’operazione si gioca, quindi, sulla fiducia che una mossa del genere potrebbe ingenerare nei mercati.
D. – Prof. Deaglio, nella storia delle politiche economiche degli USA questa mossa come verrà registrata?
R. – Da una parte, ha una certa ampiezza di visione, proprio perché per la prima volta invece di correre dietro alle singole situazioni di emergenza si affronta il problema nel suo complesso. Dall’altra parte, il modo in cui è stata presentata, il modo in cui si pensa di andare avanti sa un poco di improvvisazione e di una certa goffaggine.
D. – In ogni caso è davvero la morte del liberismo?
R. – Il liberismo così come era inteso in America sicuramente sì. Un pensiero economico americano, dal 1980 in poi, ha gradualmente teorizzato che i mercati devono essere lasciati soli: quindi si autocorreggono, si danno le proprie regole e i vizi privati diventano pubbliche virtù. Questa – se posso condensare in poche parole – è sostanzialmente l’essenza della filosofia che sta dietro a tutta la creazione di questo impero di carta, di questi titoli che si reggono l’uno sull’altro e che hanno, peraltro, consentito – per esempio – lo sviluppo di Internet e tante altre cose importanti. Quando il castello di carta, però, viene giù…viene giù. Non si può fare diversamente. A questo punto deve, quindi, intervenire un ombrello pubblico. Questa è sicuramente la sconfitta del mercato inteso come supremo ordinatore della vita di una società.
D. – Dopo il via libera in Senato al piano di salvataggio statunitense – ricordiamo, comunque, che ci sarà il passaggio alla Camera venerdì: la reazione da parte delle Borse asiatiche è stata di scetticismo, mentre l’Europa ha dato segnali di maggiore positività. Perché?
R. – Anzitutto questo piano sembra essere stato cambiato dalla sua versione originaria. Vedremo ora, quando emergerà dal Congresso nel suo complesso, quali cambiamenti siano stati inseriti. L’attuazione del piano è ancora lontana e meno incisiva di quello che si pensava all’inizio. Ecco il motivo per cui nel resto del mondo non è che ci sia un grandissimo entusiasmo e non si considera che questo sia il toccasana. Ma rimane pur sempre una medicina interessante. L’Europa è un pochino più ottimista dell’Asia, ma queste sfumature in un momento in cui si sa ancora molto poco sono del tutto normali.
UNITÀ
La lezione del ’29
Nicola Cacace
Pubblicato il: 02.10.08
Fa bene il presidente Berlusconi a dirsi «pronto a difendere le nostre banche», gli consiglierei però di prestare attenzione anche all’impoverimento delle masse e alla concentrazione della ricchezza, fenomeni presenti nel ‘29 come oggi.
Due interrogativi attraversano il mondo investito dalla crisi finanziaria:
il primo è cosa ci sia in comune tra la grande depressione del ‘29 e la crisi di oggi.
La seconda, se esiste il rischio che una crisi come quella si possa ripresentare oggi.
Rispondo subito di NO, ma è bene fare attenzione.
Negli Usa la crisi toccò l’apice tre anni dopo, nel ‘32, con effetti devastanti:
un Pil quasi dimezzato,
il 25% di disoccupazione
e durò nove anni.
Quella crisi investì tutto il mondo capitalista sino all’Italia, con caratteristiche simili.
Il Pil italiano crollò di molti punti e impiegò otto anni per tornare ai valori reali del 1930. Oggi, di meglio, c’è il pronto intervento delle autorità bancarie e governative di qua e di là dell’Atlantico che allora mancò in America; di peggio, c’è una panoplia di titoli “tossici” o Hedge Fund diffusi in tutto il mondo, che allora non c’erano.
Sul Big Crash del ‘29 in America sono state fatte molte analisi e, oltre ad errori governativi e delle autorità monetarie che brillarono per assenza, la maggioranza degli economisti mette sul banco degli accusati la concentrazione della ricchezza come prima causa strutturale di una crisi che da normale recessione ciclica si trasformò in grande depressione.
Nel decennio precedente, dominato da due presidenti repubblicani, ci furono quattro interventi governativi di riduzione delle imposte a favore di imprese e di ceti abbienti che determinarono un forte spostamento di ricchezza dai ceti medi e poveri alle famiglie più ricche.
Nel 1920 l’1% delle famiglie deteneva il 31,6% della ricchezza immobiliare e finanziaria americana, nel 1929 la quota era salita di 5 punti al 36,6%. Un balzo gigantesco nella distribuzione della ricchezza che normalmente sconta variazioni assai più piccole, che il professor Ravi Batra (The Great Depression, Simon e Shuster, 1987) ed il Nobel Lester Thurow indicano come causa strutturale del Big Crash:
«Primo, quando il numero di persone con scarso reddito cresce, cresce anche il numero di Bad Credits concessi dalle banche ed il conseguente rischio di fallimento delle stesse.
Secondo effetto della concentrazione di ricchezza è l’aumento degli investimenti speculativi e non produttivi.
Un terzo effetto della concentrazione di ricchezza è il calo della domanda interna per l’impoverimento di ceti medi e poveri».
Come stiamo oggi a concentrazione di ricchezza e a disuguaglianze nei redditi? Siamo messi molto male, perché a partire dagli anni Ottanta, dall’avvento della Tatcher in Gran Bretagna e di Reagan in America, le disuguaglianze sono fortemente aumentate in tutti i Paesi industriali, ad eccezione dei Paesi nordici e dell’Olanda, in conseguenza delle domande di deregolazione, privatizzazioni e meno tasse del liberismo governante.
Nei Paesi anglosassoni più del 40% della ricchezza nazionale è posseduta dall’1% delle famiglie mentre nel resto d’Europa la percentuale si aggira intorno al 30%. La concentrazione della ricchezza è conseguenza delle disuguaglianze dei redditi.
In Italia, tra il 1993 ed il 2003 ben sette punti percentuali del reddito nazionale sono passati dal lavoro al capitale, cioè da salari e pensioni a rendite e profitti e questo significa inclusi quasi 4mila euro l’anno sottratto a ciascuno dei 22 milioni di lavoratori, autonomi. Anche se il sacrificio maggiore è stato sostenuto dai lavoratori dipendenti, il cui reddito in termini reali tra il 2000 ed il 2006 è rimasto fermo (+0,3%) malgrado un aumento del Pil del 5,3%, mentre quello degli autonomi è aumentato del 13%.
Nel 1986 il professor Valletta presidente della Fiat, guadagnava 60 volte la media, l’attuale presidente con 8 milioni l’anno guadagna 300 volte i suoi operai. Quanto a concentrazione di ricchezza e disuguaglianze sociali, le condizioni delle nostre economie assomigliano a quelle degli anni della grande depressione.
Per quanto riguarda l’Italia, basta vedere i dati sul calo dei consumi, a popolazione crescente, per rendersi conto che i redditi stagnanti di ceti medi e poveri non sono in grado di alimentare la domanda interna, da dieci anni quella che in Europa ha meno contribuito alla crescita del Pil.
Oggi non c’è il rischio che una crisi devastante come quella del ‘29 si possa ripetere, perché il mondo che produce non è limitato all’Occidente e perché, come si è visto sino ad oggi, dagli Stati Uniti all’Europa autorità monetarie e governi non sono rimasti passivi. Questo non significa che in Italia non subiremo danni. Effetti negativi non mancheranno sia per le imprese - più difficoltà nell’export e una stretta creditizia, sia per la massa di cittadini soffocati da redditi e pensioni basse e stagnanti con prezzi crescenti.
Se il governo non pone riparo a questa situazione, la crescita del Paese continuerà a soffrire di un apporto insufficiente della domanda interna.
Berlusconi fa bene a vigilare sulla salute delle nostre banche, che non è la prima preoccupazione del momento, fa male a sottovalutare l’impoverimento di salari e pensioni, oggi il più acuto fattore di crisi del Paese.
Per concludere, la lezione della Grande Depressione non va dimenticata perché il mondo capitalista si è messo su una china simile al ‘29, di disuguaglianze sociali e di concentrazione di ricchezza non solo eticamente condannabili ma anche economicamente dannose e perché, sotto la spinta del liberismo, troppi controlli sulla finanza si sono allentati.
Il liberismo con Stato debole e senza controlli, che produce concentrazione di ricchezza e grandi disuguaglianze sociali, anche se umiliato, rischia di fare ancora più danni dei titoli spazzatura.
È evidente che senza l’intervento dello Stato le banche crollano e con essi tutti i milioni di risparmiatori che hanno acquistato i titoli “spazzatura” in tutto il mondo. Tutte le banche coinvolte si fanno ovviamente scudo dei risparmiatori per farsi salvare dallo Stato. Queste per anni hanno venduto “carta” cioè “debiti” ad altre banche e queste altre ad altre e così via fino ai risparmiatori che per la stragrande maggioranza appartengono alla classe media.
Che cosa è accaduto allora? Qual è stato quel terribile e semplice meccanismo che ha fatto crollare la montagna di “carta”?
La sterminata gente che ha avuto il “mutuo facile” per acquistare le case, ad un certo punto non ce l’ha fatta più a pagare le “rate” sempre più alte perché nel frattempo si era “impoverita” e anche perché non conveniva più pagare un mutuo più alto del valore della casa.
Nemmeno laddove la banca fosse riuscita a recuperare l’immobile ha potuto recuperare tutto il valore perché nel frattempo le case si sono “svalutate” e questo si è tradotto in “perdite di liquidità” che non permette di onorare tutta la “carta” messa in circolazione diventando così “titoli spazzatura”.
Gli Stati e i Governi ora sono costretti ad intervenire sugli effetti e non sulle cause con montagne di soldi da “addebitare” alla collettività (di cui gran parte sono i risparmiatori medesimi).
Le cause del fenomeno sono simili alla crisi del ’29 e sono dovute principalmente alla concentrazione della ricchezza a pochi in conseguenza all’impoverimento della classe media e povera in questi ultimi quindici anni. Questi non riuscendo più a reggere la domanda interna non comprano più case facendo abbassare i valori degli immobili. In queste condizioni solo gli speculatori si sono avvantaggiati insieme a quei banchieri e finanzieri che ora si vedono coperti i loro debiti dallo Stato.
La deregolamentazione ed allentamento dei controlli sul sistema finanziario all’insegna del “liberismo senza regole” che si pensava fosse “autoregolante” ha invece prodotto il crack spettacolare a cui stiamo assistendo.
Raffaele B.
RADIOVATICANA
Sì del Senato USA al piano anticrisi di Bush
02/10/2008 15.56.08
Il presidente americano George W. Bush ha detto che, dopo il voto positivo del Senato ieri, anche la Camera deve dare luce verde al piano di salvataggio di Wall Street. ''Ne ha bisogno l'economia, il piano è essenziale alla sicurezza dei mercati'', ha detto Bush, secondo il quale, con gli emendamenti al piano approvati, repubblicani e democratici non dovrebbero più avere riserve a votare per il sì. Alla Camera, dove si rivota venerdì, avevano bocciato il piano 228 deputati contro 205 favorevoli. Ma come valutare a questo punto la crisi economica partita dagli Stati Uniti? Nell’intervista di Fausta Speranza, l’economista Mario Deaglio, docente all’Università di Torino, la paragona ad una sorta di virus:
R. – Se noi paragoniamo questa infezione ad una infezione causata da un virus, possiamo dire che finora abbiamo dato degli antibiotici: abbiamo, cioè, iniettato dei soldi quando mancavano. Ma come succede, gli antibiotici circoscrivono, limitano i danni, ma non curano la malattia principale. Quello che il governo americano sembra voler fare è, invece, di incidere sulla sfiducia, eliminare quindi la sfiducia, perché i “titoli spazzatura” verrebbero comprati – loro dicono per un periodo temporaneo – da un ente nuovo governativo e quindi la spazzatura viene messa in frigorifero e poi quando sarà il momento, passata l’emergenza, viene gradualmente venduta e sperando di non rimetterci troppo. La cifra è grande in sé, è enorme, ma rappresenta probabilmente non più del 20 per cento dei “titoli spazzatura” che ci sono in giro. L’operazione si gioca, quindi, sulla fiducia che una mossa del genere potrebbe ingenerare nei mercati.
D. – Prof. Deaglio, nella storia delle politiche economiche degli USA questa mossa come verrà registrata?
R. – Da una parte, ha una certa ampiezza di visione, proprio perché per la prima volta invece di correre dietro alle singole situazioni di emergenza si affronta il problema nel suo complesso. Dall’altra parte, il modo in cui è stata presentata, il modo in cui si pensa di andare avanti sa un poco di improvvisazione e di una certa goffaggine.
D. – In ogni caso è davvero la morte del liberismo?
R. – Il liberismo così come era inteso in America sicuramente sì. Un pensiero economico americano, dal 1980 in poi, ha gradualmente teorizzato che i mercati devono essere lasciati soli: quindi si autocorreggono, si danno le proprie regole e i vizi privati diventano pubbliche virtù. Questa – se posso condensare in poche parole – è sostanzialmente l’essenza della filosofia che sta dietro a tutta la creazione di questo impero di carta, di questi titoli che si reggono l’uno sull’altro e che hanno, peraltro, consentito – per esempio – lo sviluppo di Internet e tante altre cose importanti. Quando il castello di carta, però, viene giù…viene giù. Non si può fare diversamente. A questo punto deve, quindi, intervenire un ombrello pubblico. Questa è sicuramente la sconfitta del mercato inteso come supremo ordinatore della vita di una società.
D. – Dopo il via libera in Senato al piano di salvataggio statunitense – ricordiamo, comunque, che ci sarà il passaggio alla Camera venerdì: la reazione da parte delle Borse asiatiche è stata di scetticismo, mentre l’Europa ha dato segnali di maggiore positività. Perché?
R. – Anzitutto questo piano sembra essere stato cambiato dalla sua versione originaria. Vedremo ora, quando emergerà dal Congresso nel suo complesso, quali cambiamenti siano stati inseriti. L’attuazione del piano è ancora lontana e meno incisiva di quello che si pensava all’inizio. Ecco il motivo per cui nel resto del mondo non è che ci sia un grandissimo entusiasmo e non si considera che questo sia il toccasana. Ma rimane pur sempre una medicina interessante. L’Europa è un pochino più ottimista dell’Asia, ma queste sfumature in un momento in cui si sa ancora molto poco sono del tutto normali.
UNITÀ
La lezione del ’29
Nicola Cacace
Pubblicato il: 02.10.08
Fa bene il presidente Berlusconi a dirsi «pronto a difendere le nostre banche», gli consiglierei però di prestare attenzione anche all’impoverimento delle masse e alla concentrazione della ricchezza, fenomeni presenti nel ‘29 come oggi.
Due interrogativi attraversano il mondo investito dalla crisi finanziaria:
il primo è cosa ci sia in comune tra la grande depressione del ‘29 e la crisi di oggi.
La seconda, se esiste il rischio che una crisi come quella si possa ripresentare oggi.
Rispondo subito di NO, ma è bene fare attenzione.
Negli Usa la crisi toccò l’apice tre anni dopo, nel ‘32, con effetti devastanti:
un Pil quasi dimezzato,
il 25% di disoccupazione
e durò nove anni.
Quella crisi investì tutto il mondo capitalista sino all’Italia, con caratteristiche simili.
Il Pil italiano crollò di molti punti e impiegò otto anni per tornare ai valori reali del 1930. Oggi, di meglio, c’è il pronto intervento delle autorità bancarie e governative di qua e di là dell’Atlantico che allora mancò in America; di peggio, c’è una panoplia di titoli “tossici” o Hedge Fund diffusi in tutto il mondo, che allora non c’erano.
Sul Big Crash del ‘29 in America sono state fatte molte analisi e, oltre ad errori governativi e delle autorità monetarie che brillarono per assenza, la maggioranza degli economisti mette sul banco degli accusati la concentrazione della ricchezza come prima causa strutturale di una crisi che da normale recessione ciclica si trasformò in grande depressione.
Nel decennio precedente, dominato da due presidenti repubblicani, ci furono quattro interventi governativi di riduzione delle imposte a favore di imprese e di ceti abbienti che determinarono un forte spostamento di ricchezza dai ceti medi e poveri alle famiglie più ricche.
Nel 1920 l’1% delle famiglie deteneva il 31,6% della ricchezza immobiliare e finanziaria americana, nel 1929 la quota era salita di 5 punti al 36,6%. Un balzo gigantesco nella distribuzione della ricchezza che normalmente sconta variazioni assai più piccole, che il professor Ravi Batra (The Great Depression, Simon e Shuster, 1987) ed il Nobel Lester Thurow indicano come causa strutturale del Big Crash:
«Primo, quando il numero di persone con scarso reddito cresce, cresce anche il numero di Bad Credits concessi dalle banche ed il conseguente rischio di fallimento delle stesse.
Secondo effetto della concentrazione di ricchezza è l’aumento degli investimenti speculativi e non produttivi.
Un terzo effetto della concentrazione di ricchezza è il calo della domanda interna per l’impoverimento di ceti medi e poveri».
Come stiamo oggi a concentrazione di ricchezza e a disuguaglianze nei redditi? Siamo messi molto male, perché a partire dagli anni Ottanta, dall’avvento della Tatcher in Gran Bretagna e di Reagan in America, le disuguaglianze sono fortemente aumentate in tutti i Paesi industriali, ad eccezione dei Paesi nordici e dell’Olanda, in conseguenza delle domande di deregolazione, privatizzazioni e meno tasse del liberismo governante.
Nei Paesi anglosassoni più del 40% della ricchezza nazionale è posseduta dall’1% delle famiglie mentre nel resto d’Europa la percentuale si aggira intorno al 30%. La concentrazione della ricchezza è conseguenza delle disuguaglianze dei redditi.
In Italia, tra il 1993 ed il 2003 ben sette punti percentuali del reddito nazionale sono passati dal lavoro al capitale, cioè da salari e pensioni a rendite e profitti e questo significa inclusi quasi 4mila euro l’anno sottratto a ciascuno dei 22 milioni di lavoratori, autonomi. Anche se il sacrificio maggiore è stato sostenuto dai lavoratori dipendenti, il cui reddito in termini reali tra il 2000 ed il 2006 è rimasto fermo (+0,3%) malgrado un aumento del Pil del 5,3%, mentre quello degli autonomi è aumentato del 13%.
Nel 1986 il professor Valletta presidente della Fiat, guadagnava 60 volte la media, l’attuale presidente con 8 milioni l’anno guadagna 300 volte i suoi operai. Quanto a concentrazione di ricchezza e disuguaglianze sociali, le condizioni delle nostre economie assomigliano a quelle degli anni della grande depressione.
Per quanto riguarda l’Italia, basta vedere i dati sul calo dei consumi, a popolazione crescente, per rendersi conto che i redditi stagnanti di ceti medi e poveri non sono in grado di alimentare la domanda interna, da dieci anni quella che in Europa ha meno contribuito alla crescita del Pil.
Oggi non c’è il rischio che una crisi devastante come quella del ‘29 si possa ripetere, perché il mondo che produce non è limitato all’Occidente e perché, come si è visto sino ad oggi, dagli Stati Uniti all’Europa autorità monetarie e governi non sono rimasti passivi. Questo non significa che in Italia non subiremo danni. Effetti negativi non mancheranno sia per le imprese - più difficoltà nell’export e una stretta creditizia, sia per la massa di cittadini soffocati da redditi e pensioni basse e stagnanti con prezzi crescenti.
Se il governo non pone riparo a questa situazione, la crescita del Paese continuerà a soffrire di un apporto insufficiente della domanda interna.
Berlusconi fa bene a vigilare sulla salute delle nostre banche, che non è la prima preoccupazione del momento, fa male a sottovalutare l’impoverimento di salari e pensioni, oggi il più acuto fattore di crisi del Paese.
Per concludere, la lezione della Grande Depressione non va dimenticata perché il mondo capitalista si è messo su una china simile al ‘29, di disuguaglianze sociali e di concentrazione di ricchezza non solo eticamente condannabili ma anche economicamente dannose e perché, sotto la spinta del liberismo, troppi controlli sulla finanza si sono allentati.
Il liberismo con Stato debole e senza controlli, che produce concentrazione di ricchezza e grandi disuguaglianze sociali, anche se umiliato, rischia di fare ancora più danni dei titoli spazzatura.
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